Un noir teso, inquietante, viscerale. Con Vicoli Oscuri, pubblicato da Fratelli Frilli Editori, Lorenzo Malvezzi ci trascina tra le ombre di Genova, in una discesa nei meandri dell’animo umano. La città non è solo sfondo, ma parte viva e pulsante della narrazione: i suoi vicoli bui, i chiaroscuri taglienti, amplificano il senso di smarrimento e ambiguità che attraversa l’intero romanzo.
Protagonista è Tito Laremi, figura tormentata e fragile, coinvolta in un’indagine che si trasforma presto in un confronto con le proprie zone d’ombra. Per Malvezzi, la letteratura non deve essere neutra né accomodante: chi legge deve sentirsi coinvolto, provocato, costretto a prendere posizione. E attraverso una scrittura in prima persona che abbatte le distanze, lo scrittore mette a nudo le contraddizioni di chi guarda, senza offrire soluzioni rassicuranti.
Lo abbiamo intervistato per approfondire il suo rapporto con la scrittura, con Genova e con quei vuoti interiori che fanno da detonatore nella sua narrazione.
In “Vicoli Oscuri” il lettore non è solo spettatore, ma diventa quasi parte attiva della storia. Perché è importante per te che chi legge prenda posizione di fronte a ciò che racconti?
Ritengo che non si possa rimanere neutrali su tutto. Per questo mi piacerebbe mettere a nudo il pensiero del lettore, farlo uscire allo scoperto, fuori dal politically correct a tutti i costi. Vorrei che si immergesse – anche attraverso l’uso della prima persona- in pensieri e vicende fuori dal suo ordinario per costringerlo in qualche modo a confrontarsi con sé stesso.
Le atmosfere del romanzo sono cupe, tese, ma anche molto reali. Che rapporto hai con la città di Genova e cosa ti ha spinto a trasformarla in teatro di questa discesa nell’oscurità?
Genova è la mia città, la conosco a fondo; quindi, so descriverla in modo che possa essere una sorta di correlativo oggettivo di tradizione montaliana: non solo una cornice, ma una vera e propria amplificatrice delle sensazioni dei protagonisti. Inoltre, i suoi chiaro scuri, le ombre dei vicoli in cui “il sole del buon Dio non dà i suoi raggi” sono l’ambientazione perfetta per un noir.
Tito Laremi si ritrova coinvolto in un’indagine che lo costringe a guardarsi dentro. Quanto c’è di te in questo protagonista tormentato?
Abbastanza: quel tanto che basta per renderlo credibile, ma non troppo, così da potermi ancora sorprendere delle sue scelte.
Il tema del vuoto – psicologico e identitario – attraversa il libro come un’eco. È qualcosa che volevi indagare fin dall’inizio?
Mi interessava esplorare la fragilità umana, il modo in cui la vita – per alcune persone – somiglia a un piano inclinato: una volta che inizi a scivolare, l’inerzia è difficile da fermare. Non è così per tutti, certo, ma proprio per questo volevo indagare quel vuoto interiore che accompagna alcuni dei miei protagonisti. Un vuoto che non è solo assenza, ma spesso una forza oscura che li spinge, li deforma, li mette a nudo.
Hai detto che un buon romanzo fa conoscere meglio sé stessi a chi lo legge. Quale parte di te hai scoperto scrivendo “Vicoli Oscuri”?
SI ho detto che fa conoscere meglio sè stesso a chi lo legge, non a chi lo scrive. Io purtroppo continuo a non capire un granché di me stesso.